È anzitutto opportuno partire da una consapevolezza: la medicina non è una scienza infallibile e non è in grado di salvare tutti, sempre e comunque. Guarigione e cura sono concetti diversi e non sovrapponibili.
L’art. 3 del codice di deontologia medica sancisce che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana senza discriminazione di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace come in tempo di guerra, quale che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”.
L’intervento di cura, terapeutico, diagnostico e assistenziale rivolto alla persona malata è quindi anzitutto finalizzato alla guarigione o almeno alla stabilizzazione della malattia o alla possibilità di un prolungamento significativo della vita. L’evoluzione della scienza medica consente, infatti, alle persone di gestire la “cronicità” e convivere anche a lungo con patologie che un tempo avevano un esito rapidamente infausto.
Tuttavia, esistono situazioni in cui i curanti si rendono progressivamente conto che le terapie non sono più efficaci: la cura diretta alla malattia non è più in grado di guarire, né di garantire un prolungamento della vita, né una stabilizzazione.
Questo è il momento in cui si raggiunge il c.d. “limite alle cure”, cui deve conseguire una diversa presa in carico del paziente: iniziato il processo del morire, gli sforzi dei medici e dei sanitari sono concentrati non sulla malattia (che non è più governabile), ma sul controllo dei sintomi, per garantire qualità di vita e rispetto della dignità della persona anche in questo ultimo suo tratto di vita, in cui massima è la sua fragilità corporea, psicologica, relazionale e sociale.
La morte a seguito di malattia non è, infatti, generalmente un evento improvviso e puntuale: si parla di processo del fine vita perché la morte interviene dopo un arco di tempo, a volte non brevissimo.
Ed è questo oggi lo spazio di riflessione etica e giuridica: la vita biologica ha un inizio e una fine, scanditi da un tempo naturale che può essere “alterato” con l’intervento artificiale dell’uomo; la tecnica medica può portare ad un allungamento artificiale della vita, anche aldilà di quello che l’individuo ritiene desiderabile, non riuscendo più ad attribuire un senso all’esperienza che sta vivendo.
La malattia è, infatti, sempre un’esperienza esistenziale, un viaggio in terra straniera e senza passaporto, in cui la persona - fragile e bisognosa di cura - deve riscoprirne il significato per trovarsi oltre, verso la guarigione se possibile, verso la gestione della cronicità se non c’è possibilità di guarigione, verso l’accettazione del processo di morire se la prognosi è infausta e a breve termine. In quest’ultima fase è più evidente la necessità di “prendersi cura” della persona, considerata nell’insieme della sua situazione sanitaria, personale e sociale.
Per comprendere le questioni del fine vita è, quindi, necessario partire dagli approdi consolidati nella riflessione Bioetica e accolti dalla deontologia medica: oggetto di cura non è il corpo malato ma una persona; la relazione terapeutica deve anzitutto evitare la spersonalizzazione del processo di cura; la volontà e la dignità del paziente sono al centro di qualsiasi relazione terapeutica, e la dignità è appunto il diritto del paziente a rimanere sé stesso.
È necessario, altresì, comprendere il ruolo dei retaggi culturali: dove c’è vita, c’è anche la morte e questa endiadi non è superabile; o meglio dove c’è vita ad un certo punto giunge la fine della vita, come processo naturale e non evitabile.
In questi anni, la classe medica sta lentamente superando l’atteggiamento positivista, per il quale la morte del paziente era vissuta quasi come una “sconfitta” professionale così come l’approccio iper specialistico: il corpo malato parcellizzato viene analizzato e curato nelle singole componenti, senza che ci sia o che possa essere percepita dal paziente una presa in carico complessiva.
La stessa riflessione dottrinale cattolica se rifiuta “il procurare la morte”, accetta “il non poterla impedire” e giustifica l’uso della morfina o della sedazione profonda anche quando queste pratiche possono accelerare la morte del paziente terminale.
Il fine vita è la fase in cui queste difficoltà culturali (sia dei sanitari che dei pazienti e delle persone che sono a lui umanamente legate) e professionali divengono più evidenti: il processo del morire richiede un supporto ampio alla persona non solo fisico, ma completo, che integri il rispetto del suo complesso mondo culturale e valoriale.
È necessario che tutti i protagonisti accettino gradatamente l’idea della morte, e accettino che la liturgia dei gesti e delle scelte sia incentrata sui bisogni e sulle emozioni del morente e non sulle proprie: a volte presso il letto del morente si continua a far rumore con attività di cura futili, perché sono i parenti che non accolgono la desistenza terapeutica.
Quanto al dibattito in corso, oggi si discute se a certe condizioni la persona morente possa, attraverso una manifestazione consapevole di volontà, imprimere un’accelerazione alla propria morte, anticipando quindi questo momento rispetto al tempo naturale, o perché messa nella condizione di porre da sola fine alla propria vita (c.d. suicidio assistito) o perché tale atto viene posto in essere da altro soggetto con un intervento attivo di tipo eutanasico.
Approfondiremo queste tematiche in due apposite schede di questo lavoro.
Va precisato sin d’ora che il dibattito sul suicidio assistito e sull’eutanasia non attiene al contenuto della l. n. 219/2017, anche se deve inevitabilmente confrontarsi con i principi che questa legge ha declinato come fondanti la relazione terapeutica.
L’articolo 1, comma primo, richiama la necessità di una tutela congiunta del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona. I successivi commi sanciscono il diritto alla libertà di autodeterminazione terapeutica e quindi di consenso alle cure, rifiuto delle cure, revoca del consenso o del rifiuto precedentemente manifestato. Dissenso e revoca possono riguardare anche sostegni vitali.
Il primo comma dell’art. 2 sancisce che, anche in caso di rifiuto o revoca del consenso, resta il dovere medico di accompagnare il paziente nella fase terminale, attraverso la piena applicazione delle cure palliative e della terapia del dolore previste dalla l. n. 38/2010, al fine di alleviare qualsiasi sofferenza e di mantenere al paziente la miglior qualità di vita possibile.
Ma la morte in caso di rifiuto delle cure da parte del paziente o di loro interruzione per giudizio medico (perché ritenute non più utili o efficaci o appropriate o proporzionate), sopraggiunge comunque come evento naturale, che non viene quindi mai volontariamente anticipato.
Suicidio assistito ed eutanasia attiva tendono, invece, all’anticipazione voluta della morte rispetto al suo naturale verificarsi, e per questo esulano dal campo di applicazione della l. n. 219/2017.